Desiderare Meno

In un pomeriggio di primavera del 2021 mi sono affacciato in camera di mia figlia adolescente, aspettandomi di trovarla a fissare distratta la schermata di Zoom spacciata per scuola durante la pandemia. Invece si stava sbellicando dalle risate. Le ho chiesto cosa stava guardando. “È un vecchio che balla come un pollo e canta”, mi ha detto.

Dato che non sono immune alla voglia di guardare qualcuno che si rende ridicolo per quindici secondi di fama sui social network, mi sono avvicinato al computer e mi sono trovato davantil alla rockstar settantenne Mick Jagger in un concerto abbastanza recente, che gracchiava probabilmente per la milionesima volta il classico dei Rolling Stones (I can’t get no) Satisfaction. Un pubblico di decine di migliaia di persone, che sembravano per lo più nate tra il 1945 e il 1980, lo accompagnava con entusiasmo.

“Ma sul serio?”, mi ha chiesto, “alla
gente della tua età piace davvero?”. Mi
ma ho dovuto ammettere che era una domanda legittima. “Più o meno”, ho risposto. Non era solo per la musica, e nemmeno la performance, le assicurai. Secondo me, la longevità di quella canzone in particolare – che è al secondo posto nella lista delle “cin- quecento più grandi canzoni di tutti i tempi” stilata dalla rivista Rolling Stone – ha molto a che vedere con una profonda verità.

Mentre ci facciamo strada nella vita, le ho spiegato, la soddisfazione – la gioia per aver realizzato desideri o aspettative è evanescente. Qualsiasi cosa otteniamo, vediamo, possediamo o facciamo, sembra sfuggirci tra le dita.

Ormai ero partito. La soddisfazione, ho continuato, è il più grande paradosso della vita umana. La desideriamo, crediamo di poterla ottenere, la intravediamo e forse per un breve istante la sperimentiamo, poi svanisce. Ma non smettiamo mai di tentare di trovarla e tenercela stretta. “Ci provo, e ci provo, e ci provo, e ci provo”, canta Jagger. In che modo? Con il sesso e il consumismo, secondo la canzone. Costruendo una vita sempre più barocca, costosa e farcita di stronzate.

“Vedrai”, le ho detto.
Avevo smorzato del tutto l’entusiasmo di mia figlia,

che ora aveva l’espressione che penso avesse la figlia di Jean-Paul Sartre. “Quindi la vita è solo una corsa al successo e siamo condannati a un’esistenza insoddisfacente?”, mi ha chiesto. “Che schifo”.

“Sì, fa schifo”, ho risposto. “Ma non siamo condannati”. Le ho detto che possiamo sconfiggere questo tormento se c’impegniamo a capirlo davvero, e se siamo disposti a fare alcuni difficili cambiamenti nel nostro modo di vivere.

“Tipo?”, chiese lei, strizzando gli occhi con il sano sospetto di chi si aspetta sempre qualcosa in più.

Ho fatto una pausa. Era una domanda alla quale avevo dedicato molto del mio tempo, con risultati alterni.

Anche le persone di grande successo soffrono del problema dell’insoddisfazione. Ricordo di aver visto una volta LeBron James – il più grande giocatore

di basket del mondo – con uno sguardo di pura disperazione dopo che la sua squadra di allora, i Cleveland Cavaliers, aveva appena perso il campionato. In quel momento di sconfitta, tutta la ricchezza e i riconoscimenti del mondo erano carta straccia.

Abd al-Rahman III, emiro e califfo di Cordova nella Spagna del decimo secolo, all’età di settant’anni sintetizzò così una vita di successi mondani: “Ho vissuto cinquant’anni di regno sempre vittorioso o in pace, amato dai sudditi, temuto dai nemici, rispettato dagli alleati. Ricchezze e onori, potenza e piaceri, nulla doveva mancare alla mia felicità”.

E quindi? “Ho attentamente tenuto conto dei giorni in cui ho provato una felicità vera”, scrisse. “Sono quattordici”.

Da osservatore, capisco il problema. Curo una rubrica sulla felicità umana per il mensile The Atlantic e tengo corsi sull’argomento all’università di Harvard. So che la soddisfazione è uno dei principali “macronutrienti” della felicità (gli altri due sono il piacere e il significato), e che la sua natura elusiva è uno dei motivi per cui la felicità tende a sfuggirci.

Eppure più e più volte sono caduto nella trappola di credere che il successo mi avrebbe appagato. Al mio quarantesimo compleanno scrissi una lista di cose che speravo di fare o raggiungere. Erano quasi tutti obiettivi che solo un secchione poteva porsi. Che fossero obiettivi buoni e nobili o meno, erano i miei, e immaginavo che se li avessi raggiunti sarei stato appagato. Ho ri- trovato quella emi sono reso conto che avevo fatto ogni cosa dell’elenco ma niente di tutto ciò mi aveva portato la gioia durevole che mi ero immaginato.

Ogni risultato mi galvanizzava per un giorno o una settimana – forse un mese, mai di più – e poi mi allungavo verso il gradino successivo.

Avevo dedicato la mia vita a salire quella scala. Lo stavo ancora facendo, lavorando dalle sessanta alle ottanta ore alla settimana per realizzare l’obiettivo successivo, con il terrore di perdere quello precedente. I costi di questo tipo di esistenza sono più che ovvi, ma è stato solo quando ho rivisto la mia lista che ho cominciato a metterne in discussione i benefici e a riconsiderare il sentiero che stavo percorrendo.

E voi?

I vostri obiettivi sono probabilmente molto diversi dai miei, e forse anche il vostro stile di vita. Ma la trappola è la stessa. Tutti hanno dei sogni che, se realizza- ti, promettono dolce ed eterno appagamento. Ma i sogni mentono. Quando si realizzano va bene, per un po’. Poi compare un sogno nuovo.

Il dilemma della soddisfazione di Mick Jagger, e il nostro, comincia con una formula rudimentale: soddisfazione = ottenere ciò che si vuole.

È semplice, e il suo potere è profondamente codificato in noi. Date a una bambina di tre anni la patatina fritta verso cui si stava allungando e vedrete la sua espressione soddisfatta. Poi, dopo qualche secondo, vedrete il ritorno del desiderio. È questo il problema, no? È quasi come se il nostro cervello fosse programmato per impedirci di godere di qualcosa a lungo.

In effetti, lo è. Il termine omeostasi fu introdotto nel 1926 da Walter B. Cannon, un fisiologo che nel suo libro La saggezza del corpo dimostrava la presenza di meccanismi integrati che regolano la nostra temperatura, così come i livelli di ossigeno, acqua, sale, zucchero, proteine, grassi e calcio. Ma il concetto si appli- ca in modo molto più esteso: per sopravvivere, tutti i sistemi viventi tendono a mantenere condizioni stabili come meglio possono.

L’omeostasi ci mantiene vivi e sani. Ma spiega anche perché le droghe e l’alcol funzionano come funzionano, e non come vorremmo. Mentre la prima dose di una nuova sostanza ricreativa può darvi un grande piacere, il vostro cervello impara subito a riconoscere l’assalto al suo equilibrio e reagisce neutralizzando l’effetto della droga in entrata, rendendo impossibile recuperare la sensazione originale. Come spiega benissimo la neuroscienziata Judith Grisel nel suo libro Mai abbastanza: la neuroscienza e l’esperienza della dipendenza, la dipendenza è in parte un sotto- prodotto dell’omeostasi: quando, sotto effetto della droga, il cervello si abitua all’incessante rilascio della dopamina – il neurotrasmettitore del piacere, che gioca un ruolo importante in quasi tutti i comportamenti di dipendenza – ne riduce drasticamente la produzio- ne, rendendo necessaria un’altra dose solo per sentirsi normali.

Lo stesso insieme di princìpi regola le nostre emozioni. Quando si riceve uno shock emotivo – buono o cattivo – il cervello tende a riequilibrarsi, rendendo difficile rimanere “su” o “giù” a lungo. Questo è particolarmente vero per le emozioni positive, per ragioni primordiali che approfondiremo tra poco. È il motivo per cui, quando si raggiunge il convenzionale successo materiale, non se ne ha mai abbastanza. Se fondate il vostro senso di autostima sul successo – denaro, potere, prestigio – correrete di vittoria in vittoria, prima per continuare a sentirvi bene, poi per evi- tare di sentirvi male.

L’incessante corsa contro i venti contrari dell’omeostasi ha un nome: tapis roulant edonico. Per quanto veloce corriamo, non arriviamo mai. “A casa io sogno che a Napoli, a Roma, potrei inebriarmi di bellezza, liberarmi della mia malinconia”, scrisse Ralph Waldo Emerson nel suo saggio del 1841 Fiducia

in se stessi. “Preparo allora il mio baule, abbraccio gli amici, m’imbarco, attraverso il mare, e infine mi sveglio a Napoli, e lì accanto a me, ecco ancora la dura realtà, il mio triste io, inattaccabile, identico, dal quale ero fuggito via”.

Gli studiosi si domandano se la nostra felicità abbia un valore nominale immutabile o se possa fluttuare nel corso della vita a causa delle circostanze. Nessuno finora ha riscontrato che l’estasi immediata per una vittoria o un risultato possa durare. Per quanto riguarda il denaro, averne di più aiuta fino a un certo punto: si possono comprare beni e servizi per alleviare i problemi della povertà che ci rendono infelici. Ma inseguire in continuazione il denaro come fonte di soddisfazione durevole semplicemente non funziona. “La natura dell’adattamento costringe gli uomini a vivere su un tapis roulant edonico”, scrivevano gli psicologi Philip Brickman e Donald T. Campbell nel 1971, “li condanna a cercare ulteriori livelli di stimo- lazione solo per mantenere i vecchi livelli di piacere, senza mai raggiungere nessun tipo di felicità o soddisfazione permanente”.

Eppure, anche rendendosi conto di tutto ciò, è difficile scendere dal tapis roulant. La nostra voglia di avere di più è piuttosto potente, ma più forte ancora è la nostra riluttanza ad avere di meno. Questa è una delle intuizioni che hanno fatto ottenere al professore di Princeton Daniel Kahneman il premio Nobel per l’economia nel 2002, per il lavoro svolto con lo psicologo di Stanford Amos Tversky.

Così provi e riprovi, ma non fai davvero dei pro- gressi verso l’obiettivo. I ricchi continuano ad accumulare molto più di quello che sono in grado di spendere, e a volte più di quello che vogliono lasciare in eredità ai figli. Sperano che a un certo punto si sentiranno felici e sono terrorizzati da ciò che succederebbe se smettessero di correre. Come disse il grande filosofo dell’ottocento Arthur Schopenhauer, “la ricchezza somiglia all’acqua di mare: quanta più se ne beve, tanto più si ha sete. Lo stesso vale per la fama”.

Secondo la psicologia evolutiva, la nostra tendenza a volere di più è perfettamente comprensibile. Per buona parte della storia la fame è stata una minaccia. Un “ricco” cavernicolo aveva qualche pelle di animale e qualche punta di freccia, perfino una manciata di semi e del pesce essiccato in più. Con questa abbondanza, poteva sopravvivere a un brutto inverno. Ma i nostri antenati preistorici non volevano solo superare l’inverno, avevano ambizioni più grandi: volevano trovare alleati e partner, con l’obiettivo (consapevole o meno) di trasmettere i propri geni. E come potevano riuscirci? Per esempio, accumulando pelli animali, dimostrando più competenza, abilità e attrattiva rispetto all’essere umano della caverna accanto.

Sorprende quanto sia cambiato poco da allora. Gli studiosi hanno dimostrato che le nostre tendenze all’accumulo persistono nell’abbondanza ed eccedono regolarmente i nostri bisogni. Questo si deve alle pulsioni residuali, un software che opera nei nostri cervelli dall’antichità.

La competizione per l’accoppiamento aiuta a spiegare

la nostra strana fissazione per il confronto sociale. Quando pensiamo alla soddisfazione che deriva dal successo (o dai beni materiali, dalla forma fisica o dalla bellezza), c’è un altro elemento da considerare: il successo è relativo. La soddisfazione richiede non solo che tu corra senza sosta sul tuo tapis roulant edonico, ma che tu corra un po’ più veloce degli altri. Questo è il motivo per cui le persone con centinaia di milioni di dollari possono sentirsi fallite se i loro amici sono miliardari, e perché gli attori famosi di Hollywood possono essere scoraggiati dal fatto che altri sono ancora più famosi.

In un certo senso sappiamo tutti che il confronto sociale è ridicolo e dannoso, e numerose ricerche lo confermano. In una serie di esperimenti in cui veniva chiesto ai soggetti di risolvere dei puzzle, per esempio, i più infelici erano sempre quelli che prestavano più attenzione a come eseguivano il compito rispetto agli altri. La lieve scarica di piacere che otteniamo facendo meglio degli altri può essere facilmente in- ghiottita dall’infelicità di fare peggio degli altri. Ma l’impulso ad avere più degli altri, a essere più degli altri, ci muove senza tregua.

Viviamo in un’epoca in cui siamo esortati a tornare alla natura, ai bei tempi andati: nelle diete, nel senso di obbligo verso la comunità e altro. Ma se l’obiettivo è una felicità durevole, seguire gli impulsi naturali non aiuta. Questa è la beffa crudele: la felicità non contribuisce a propagare la specie, quindi la natura non la favorisce. Se confondi la sopravvivenza delle generazioni con la felicità, questo è un problema tuo, non della natura.

Il nostro stato naturale infatti è l’insoddisfazione, punteggiata da brevi momenti di soddisfazione. A voi potrà non piacere il tapis roulant edonico, ma madre natura lo trova fantastico. Le piace vedervi faticare per raggiungere una meta sfuggente, perché chi s’im- pegna ottiene il bottino, anche se non se lo gode a lungo. Più partner o partner migliori significano migliori possibilità di sopravvivenza per la prole: questa antica regola è responsabile di gran parte del codice che scorre incessantemente nei profondi recessi del nostro cervello. Non importa se avete trovato l’anima gemella da cui mai vi allontanerete: gli algoritmi progettati per farci avere più compagni (o permetterci di averne di migliori) continuano a macinare, ed è per questo che desiderate ancora risultare attraenti agli estranei. L’istinto neurobiologico – percepito come insoddisfazione – è ciò che ci spinge in avanti.

Ci sono diversi altri esempi di tendenze evolutive che si oppongono alla felicità duratura: uno è soffrire di gelosia nelle relazioni romantiche (Madre natura, mentre c’invita a tradire, vorrebbe anche che stessi- mo in allerta sul rischio che il partner ci tradisca). Gli studi rivelano come gli uomini, che corrono il pericolo di spendere risorse per crescere inconsapevolmente dei figli non propri, si fissano soprattutto sull’infedeltà sessuale; le donne, che rischiano che il loro compagno si affezioni a un’altra donna– e quindi dirotti risorse verso di lei e relativi figli – rispondono con più avversità all’infedeltà emotiva.

Gli insaziabili obiettivi di ottenere di più, avere un successo visibile ed essere il più attraenti possibile portano a oggettificarci l’un l’altro e addirittura a farlo con noi stessi. Quando le persone non vedono in sé molto altro che un corpo attraente, un lavoro o un conto in banca, questo porta una grande sofferenza. Gli studi dimostrano che l’auto-oggettivazione è associata a un senso d’invisibilità e mancanza di autonomia, e l’auto-oggettivazione fisica nelle donne è direttamente collegata ai disturbi alimentari e alla depressione. L’auto-oggettivazione professionale è una tirannia altrettanto odiosa. Si diventa padroni di sé senza cuore, vedendosi come niente più che un Homo œconomicus. L’amore e il divertimento vengono sacrificati per il lavoro, alla ricerca di una risposta affermativa alla domanda “sto avendo successo?”. Diventiamo sagome cartonate di persone reali.

Nella vita di oggi non ha senso spendere le proprie energie per possedere cinque automobili, o anche cinque paia di scarpe da ginnastica. Però le vogliamo lo stesso. I neuroscienziati hanno esaminato questo problema. La dopamina viene rilasciata in risposta a pensieri di nuovi acquisti, vincite in denaro, maggior potere o fama, nuovi partner sessuali. Il cervello si è evoluto per ricompensare i comportamenti che ci hanno tenuto in vita e hanno aumentato le probabilità di trasmettere il nostro dna.

Per chi ha fede, la soddisfazione ha un altro nome: paradiso.

Molte religioni promettono il paradiso ai credenti. Raramente riflettiamo con cura su cosa questo comporti – arpe e nuvole? – ma la chiesa cattolica è cordialmente specifica al riguardo. Il cielo ci concede la “visione beatifica”: Dio che si mostra a noi vis-à-vis, facendoci conoscere la sua vera natura ed esaudendo

così il “compimento dei più profondi desideri umani, lo stato di suprema, definitiva felicità”. O, come scrisse sul paradiso la mistica inglese del trecento Giuliana di Norwich, “tutto sarà bene, e tutto sarà bene, e ogni sorta di cosa sarà bene”. In altre parole, il paradiso è pura soddisfazione che dura.

Perché non sembriamo stare così bene sulla Terra? Il teologo cattolico del duecento Tommaso d’Aquino risponde nella sua magistrale Summa theologiae. Definisce il problema della soddisfazione come un problema di scopi mal concepiti: idoli che ci distraggono da Dio, vera fonte della nostra beatitudine. Anche per chi non è credente, l’elenco di Tommaso degli obiettivi che seducono ma non soddisfano è verosimile. Comprende il denaro, il potere, il piacere e l’onore. Come dice Tommaso nel caso del denaro:

Nel desiderio delle ricchezze e di qualsiasi altro bene temporale quando tali beni sono posseduti non vengono apprezzati, e se ne desiderano altri. Il che avviene perché quando sono posseduti se ne scorge meglio l’insufficienza. E ciò dimostra la loro imperfezione, e l’impossibilità che in essi consista il sommo bene.

In altre parole, non danno alcuna soddisfazione. For se Tommaso d’Aquino non riuscirebbe a riempire uno stadio, ma descrive l’origine dell’insoddisfazione jag- geriana molto meglio del vecchio Mick.

Il problema della soddisfazione, quindi, è nel nostro naturale attaccamento a queste cose inadeguate. Se vi suona un po’ buddista è perché lo è. È molto simile alla prima “nobile verità” del Budda: la vita è sofferenza (dukkha, tradotto anche come “insoddi- sfazione”) e le cause di questa sofferenza sono la brama, il desiderio e l’attaccamento alle cose del mondo

Tommaso d’Aquino e il Budda (e anche Mick Jagger) dicevano la stessa cosa.

Si noti che né Tommaso né il Budda sostenevano che le ricompense terrene sono intrinsecamente malvagie. Anzi, possono essere usate per fare del bene. Il denaro è fondamentale per far funzionare una so- cietà e per sostenere la propria famiglia; il potere può essere esercitato per risollevare gli altri; il piacere allrggerisce la vita; e l’onore può richiamare l’attenzione sulle fonti di elevazione morale. Ma se sono fini anziché mezzi, il problema è semplice: non possono dare soddisfazione.

E questo ci riporta alla domanda di mia figlia: siamo condannati, almeno in questa vita terrena, a un’esistenza di continua insoddisfazione?

Se visitate Taiwan, l’attrazione da non perdere è il National palace museum. Forse è la più grande collezio- ne di arte e manufatti cinesi del mondo e contiene circa 700mila oggetti che vanno dal neolitico (più di ottomila anni fa) all’epoca moderna.

Se il museo ha un difetto è proprio la sua sovrab- bondanza. In una visita se ne può apprezzare solo una piccola parte. Ecco perché, un pomeriggio di qualche anno fa, ho ingaggiato una guida che mi mostrasse alcuni esemplari famosi e mi spiegasse il loro significato. Non sapevo che, con un suo commento, quella persona stava per aiutarmi a risolvere il puzzle della soddisfazione.

Contemplando un’enorme scultura del Budda in giada della dinastia Qing, la mia guida ha osservato sbrigativamente che quello era un buon esempio di come la visione orientale dell’arte fosse diversa da quella occidentale. “In che senso?”, ho chiesto.

Ha risposto alla mia domanda con una domanda: “A cosa pensi quando ti chiedo d’immaginare un’opera d’arte ancora da creare?”.

“A una tela bianca, suppongo”.

“Giusto”, mi ha detto. Molti occidentali tendono a vedere l’arte come creata dal nulla. Ma c’è un altro modo di vederla: “l’arte esiste già” e il compito degli artisti è solo quello di rivelarla. Mi ha spiegato che la sua idea di arte ancora da creare era un blocco di giada non lavorato, come quello che alla fine sarebbe diventato il Budda davanti a noi. L’arte non è visibile finché l’artista non rimuove la pietra che non fa parte della scultura, ma comunque è già lì. Non tutta la filosofia artistica riflette questa distinzione tra oriente e occidente. Michelangelo Buonarroti una volta disse: “La scultura è già completa nel blocco di marmo, pri- ma che io cominci il mio lavoro. È già lì, devo solo scalpellare via il materiale superfluo”.

L’arte rispecchia la vita, e qui giace una potenziale soluzione al dilemma della soddisfazione. In genere, in occidente quando invecchiamo pensiamo di dover avere molto da esibire delle nostre vite, tanti trofei. Secondo molte filosofie orientali, è vero il contrario. Invecchiando non dovremmo accumulare di più per rappresentare noi stessi, ma piuttosto spogliarci delle cose per trovare il nostro autentico sé, e così trovare la felicità e la pace. Il Daodejing, un testo

cinese redatto intorno al quarto secolo aC che è il fondamento del taoismo, espone questo punto con eleganza:

Le persone sarebbero soddisfatte della loro semplice vita quotidiana, in armonia e libera dal desiderio. Quando non c’è desiderio,

tutte le cose sono in pac. Qando visitai il National palace museum, la mia vita era ingolfata di beni, traguardi, relazioni, opinioni e impegni. Ci volle l’osservazione della guida del museo per aiutarmi a metabolizzare gli insegnamenti di Tommaso d’Aquino e del Budda – o, in generale, della moderna scienza sociale – e smettere di cercare di aggiungere sempre di più, co- minciando invece a togliere cose.

In verità la nostra formula, soddisfazione = ottenere ciò che si vuole, esclude un fattore chiave. Per essere più precisa la formula dovrebbe essere soddisfazione = quello che hai ÷ quello che vuoi.

Tutti i nostri diktat evolutivi e biologici si focalizzano sull’aumento del numeratore, cioè i nostri averi. Ma l’intervento più significativo è sul denominatore, i nostri desideri.

Il segreto della soddisfazione non sta nell’aumentare i beni da possedere, perché non funzionerà mai (o almeno, non durerà): è la formula del tapis roulant, non la formula della soddisfazione. Il segreto è gestire i nostri desideri. Gestendo ciò che vogliamo invece di ciò che abbiamo, ci diamo la possibilità di condurre una vita più soddisfacente.

Queste sono state le idee che ho cercato di spiegare a mia figlia quel pomeriggio di primavera. Lei ha ascoltato con interesse, poi ha replicato asciutta: “Quindi stai dicendo che il segreto della soddisfazione è semplice. Devo solo andare contro diversi milioni di anni di biologia evolutiva”, più l’intera cultura moderna, “e sarò a posto”.

Ovviamente non potevo abbandonare lì la questione. Uno dei motivi per cui spesso la gente non si fida degli accademici come me è che parliamo sempre di problemi, ma proponiamo raramente soluzioni pratiche. Peggio ancora, spesso ignoriamo il nostro stesso buon senso. Ho conosciuto economisti in ban- carotta ed esperti di felicità depressi.

Lei però sapeva che per me tutto questo non era solo teoria. Ci eravamo trasferiti due anni prima da Bethesda, un facoltoso sobborgo di Washington, in una piccola cittadina fuori Boston. Mi ero dimesso da una posizione da dirigente per insegnare e scrivere, rinunciando ai miei contatti quotidiani con politici e imprenditori , che in buona parte mi avevano rapidamente dimenticato. Non avevo nascosto il motivo del trasferimento e la mia famiglia era del tutto d’accordo: stavo seguendo il mio stesso consiglio, pubblicato sull’Atlantic nel 2019, per trovare un nuovo tipo di successo e un tipo di felicità più profondo . Quel progetto non riguardava solo la soddisfazione; comportava anche il riconoscimento del fatto che, sul piano professionale, la maggior parte delle persone rag- giunge l’apice prima del previsto. Il declino è più rapido, e resistergli è controproducente e in definitiva inutile. Avevo bisogno di scendere dal tapis roulant edonico scambiando effimere scariche emotive professionali per un appagamento più duraturo che sarebbe continuato ben oltre la metà successiva della mia vita. Quando, al di là della mia volontà, i ritmi di vita si sono ulteriormente rallentati durante la pande- mia, ho avuto ancora più tempo per pensare a come far funzionare quella transizione.

Per questo ho dato a mia figlia alcuni suggerimenti pratici su come vincere la maledizione dell’insoddisfazione. Sono tre abitudini che ho elaborato per me e che sono radicate nella filosofia e nella ricerca delle scienze sociali.

1. Da principe a saggio

Uno studioso che propose soluzioni reali ai problemi della vita fu Tommaso d’Aquino. Non si limitò a spie- gare l’enigma della soddisfazione: offrì una risposta e la sperimentò in prima persona.

Ultimogenito del conte Landolfo d’Aquino, Tom- maso nacque intorno al 1225 nel castello di famiglia, in Italia centrale. Fu mandato a studiare nel primo monastero benedettino, a Montecassino. Come fi- glio minore di una famiglia nobile, ci si aspettava che

un giorno diventasse l’abate del monastero, un ruolo di enorme prestigio sociale.

Ma Tommaso non era interessato alla gloria mon- dana. A diciannove anni si unì all’ordine domenica- no, un gruppo di frati dediti alla povertà e alla predi- cazione itinerante. Quella, sentiva, era la sua vera identità. Bisognava scalfire la vita di ricchezza e privi- legio per poterla trovare.

Tommaso si dedicò allo studio e all’insegnamento, stendendo densi trattati filosofici ancora oggi fondamentali. È considerato il più grande filosofo della sua epoca. Ma questo non fu mai il suo obiettivo. Al contrario, considerava il lavoro nient’altro che l’e- spressione del suo amore per Dio e del desiderio di aiutare il prossimo.

Il Budda ha decifrato il codice della soddisfazione in un modo sorprendentemente simile. Nacque come principe con il nome di Siddhartha Gautama intorno al sesto secolo aC, nella regione che oggi si trova al confine tra Nepal e India. In seguito alla morte im- provvisa della madre pochi giorni dopo la sua nascita, suo padre fece voto di proteggere il neonato dalle mi- serie della vita, così lo tenne chiuso nel palazzo, dove tutti i suoi bisogni e desideri terreni sarebbero stati soddisfatti.

Siddhartha non si avventurò mai fuori dal palazzo fino all’età di ventinove anni, quando, mosso dalla curiosità, chiese a un cocchiere di mostrargli il mon- do esterno. Durante il giro, incontrò un vecchio, un uomo segnato dalla malattia e un cadavere in decom- posizione. Rimase turbato da queste visioni, che il cocchiere riconobbe come inevitabili nella vita dei mortali. Poi incontrò un asceta che, attraverso la ri- nuncia ai beni terreni, aveva ottenuto non la libera- zione dalla malattia e dalla morte, ma la liberazione dalla paura di esse.

Poco dopo Siddhartha lasciò il regno e rinunciò a tutti i suoi beni. Seduto sotto un fico, l’albero della Bodhi, diventò il Budda. Trascorse il resto della vita condividendo la sua saggezza con un seguito sempre più ampio, che oggi conta più di mezzo miliardo di persone.

Io non sono Tommaso d’Aquino né il Budda (e il mio attuale incarico a Harvard difficilmente si quali- fica come un ripudio della materialità). Tuttavia ho cercato di trarre insegnamento dalle loro vite: la sod- disfazione non sta nel raggiungere uno status elevato e conservarlo per la vita, ma nell’aiutare le altre per- sone, anche condividendo qualsiasi conoscenza e saggezza acquisita. Questo è uno dei motivi per cui ho lasciato una carriera di prestigio per concentrarmi sulla scrittura e l’insegnamento. Se assumerò un altro ruolo di potere nella mia carriera, la mia attenzione sarà su ciò che voglio condividere con gli altri, non su ciò che voglio accumulare per me.

2. Fare una lista dei desideri al contrario

Un modo pratico per attenuare i desideri è semplice- mente quello di osservare i consigli che ci stanno tra- sformando in un Homo œconomicus insoddisfatto, e poi fare il contrario. Per esempio, molti manuali di

auto-aiuto suggeriscono di scrivere, il giorno del pro- prio compleanno, una lista di cose da fare nella vita per rafforzare le ambizioni terrene. Comporre un elenco di desideri offre una soddisfazione immedia- ta, perché stimola la dopamina. Ma crea attaccamen- ti, che crescendo creano a loro volta sempre più in- soddisfazione.

Ho cominciato invece a compilare una “lista dei desideri al contrario”, per rendere le idee di cui parlo in questo articolo praticabili nella mia vita. Ogni anno, il giorno del mio compleanno, elenco i miei desideri e i miei beni, le cose che Tommaso d’Aquino includerebbe nelle categorie di denaro, potere, piacere e onore. Cerco di essere del tutto onesto. Non elenco cose che in realtà detesto e non sceglierei mai, come una barca a vela o una casa per le vacanze. Piuttosto, cerco le mie debolezze, la maggior parte delle quali – m’imbarazza ammetterlo – prevedono l’ammirazione degli altri per il mio lavoro.

Poi m’immagino tra cinque anni. Sono felice e in pace, la mia vita ha uno scopo e un significato. Faccio un’altra lista delle forze che mi conducono verso que- sta felicità: la mia fede, la famiglia, le amicizie, il lavo- ro che svolgo, che è intrinsecamente soddisfacente, significativo e che serve agli altri.

Immancabilmente, queste fonti di felicità sono “intrinseche”: vengono da dentro e ruotano intorno all’amore, alle relazioni e a uno scopo profondo. Han- no poco a che fare con l’ammirazione degli estranei. Le contrappongo alle cose della prima lista, che di solito sono “estrinseche”, le gratificazioni esterne as- sociate alla lista degli idoli di Tommaso. La maggior parte delle ricerche ha dimostrato che le gratificazio- ni intrinseche conducono a una felicità molto più du- revole rispetto ai riconoscimenti estrinseci.

Rifletto su come le seconde siano in competizione con le prime per tempo, attenzione e risorse. Immagi- no di sacrificare le mie relazioni per l’ammirazione di sconosciuti, e visualizzo il risultato sul lungo periodo. Con questo in mente, affronto la lista delle cose da fare. Medito su ogni voce, ammettendo che, pur non essendo un desiderio in sé malvagio, non mi darà la felicità e la pace che cerco. Infine, ritorno alla lista delle cose che mi porteranno la vera felicità e m’impegno a perseguirle.

Data la mia smania per l’ammirazione, mi sono imposto di cercare di prestare meno attenzione a co- me mi percepiscono gli altri, allontanando questi pensieri quando si presentano. Ho lasciato andare molte conoscenze che in realtà erano legate solo all’avanzamento professionale. Lavoro un po’ meno rispetto agli anni passati. Ci vuole uno sforzo cosciente per evitare di ricadere nel vizio: il tapis roulant mi chiama spesso, e l’occasionale scarica di dopamina mi tenta a tornare alle vecchie abitudini. Ma i miei cambiamenti nel comportamento sono stati per lo più permanenti, e come risultato sono più felice.

Non voglio sostenere che ci sia qualcosa di sba- gliato nel visitare il luogo esotico che hai sempre so- gnato di vedere, o correre una maratona, o spingere in altro modo le tue capacità di fare o creare qualcosa didifficile, nella professione o in altro. Un lavoro perce- pito più come una missione offre uno scopo; viaggiare può essere intrinsecamente prezioso e piacevole; imparare un’abilità o affrontare una sfida può dare soddisfazione intrinseca; attività significative intraprese con amici o persone care possono approfondire le relazioni. Ma chiedetevi se l’attrattiva dei vostri punti della lista, professionali o esperienziali, derivi soprat- tutto da quanto vi faranno ammirare o invidiare dagli altri. Queste motivazioni non porteranno mai a una profonda soddisfazione.

3. Ridimensionarsi

Di recente c’è stata un’esplosione di libri che racco- mandano di ridimensionare la vita per essere più felici, per liberarsi dai detriti dell’esistenza. Ma non si tratta solo di avere meno cose. Possiamo infatti trovare un’immensa pienezza prestando attenzione a cose sempre più piccole. Il maestro buddista Thich Nhat Hanh lo spiega nel suo libro Il miracolo della presenza mentale: “Quando si lavano i piatti bisognerebbe solo lavare i piatti; il che significa che mentre si lavano i piatti bisognerebbe essere pienamente consapevoli di stare lavando i piatti”. Perché? Se stiamo pensando al passato o al futuro, “non siamo vivi nel momento in cui stiamo lavando i piatti”.

Per molti anni ho avuto un caro amico, una persona di circa vent’anni più anziana di me, con la quale lavorai da giovane. A quarant’anni gli hanno diagnosticato una forma aggressiva di cancro e gli hanno dato sei mesi di vita. Per qualche miracolo sopravvisse a quei sei mesi, e poi ad altri sei, e poi a quasi tre decenni. Però non è mai guarito. Il suo medico gli ha detto che il cancro era un lupo alla porta, in attesa del suo momento. Prima o poi sarebbe entrato, cosa che alla fine ha fatto un paio d’anni fa. Ma i trent’anni di questo assedio non furono un peso. Al contrario, ogni giorno gli ricordavano che dono fosse quel giorno, quindi gli facevano cercare soddisfazione non in obiettivi di vita audaci e pluriennali, ma in piccoli momenti quotidiani di bellezza con le sue amate moglie e figlia.

Qualche anno fa ero a casa sua, a mangiare e bere nel suo giardino, insieme ad alcuni amici. Era il crepuscolo e lui ci chiese di riunirci intorno a una pianta dai piccoli fiori chiusi. “Guardate un fiore”, ci disse. obbedimmo, per circa dieci minuti, in silenzio. A un tratto i fiori si schiusero, cosa che, scoprimmo, face- vano ogni sera. Rimanemmo a bocca aperta per lo stupore. Fu un momento di profonda soddisfazione.

Ma ecco quello di cui non riesco a capacitarmi: a differenza della maggior parte delle cavolate nella mia vecchia lista di cose da fare, quella soddisfazione è durata. Quel ricordo mi dà ancora gioia – più di molti dei “successi” terreni nella mia vita – non perché sia stato il coronamento di un grande traguardo, ma perché è stato un regalo inaspettato, un piccolo miracolo.

Il principe tralascerà sempre le piccole soddisfazioni della vita, rinunciando a un fiore al tramonto per trovare denaro, potere o prestigio. Ma il saggio non commette mai questo errore, e anch’io cerco di non farlo. Ogni giorno, ho un elemento nella mia lista di cose da fare che richiede la mia completa presenza a un evento ordinario. Spesso ruota intorno alla mia pratica da cattolico, compresa la messa quo- tidiana con mia moglie e la preghiera meditativa. Prevede anche delle passeggiate senza dispositivi elettronici, in ascolto solo del mondo esterno. Queste sono cose davvero soddisfacenti.

Mia figlia è partita per l’università pochi mesi dopo la nostra chiacchierata sulla scienza della soddisfazione. Dopo l’isolamento e le chiusure per il covid-19 – una triste beffa per lei, che era al suo ultimo anno di liceo – ha preso il largo, iscrivendosi a un’università in Spagna. Sono sperduto. Però ci mandiamo diversi messaggi al giorno. Non riguardano quasi mai il lavoro o la scuola. Condividiamo invece piccoli momenti: la foto di una strada piovosa, una battuta stupida, il numero di flessioni che ha appena fatto.

Non so se questo la avvantaggi nel liberarsi dal paradosso dell’insoddisfazione, ma per me è come una medicina. Ogni messaggio è come la serata del fiore – un breve scorcio della visione beatifica del paradiso, forse – che porta una quieta soddisfazione.

Ognuno di noi può cavalcare le onde dell’attaccamento e degli impulsi, sperando inutilmente che un giorno, in qualche modo, otterremo e manterremo la soddisfazione che desideriamo. Oppure possiamo fare un tentativo con il libero arbitrio e la padronanza di sé. È una battaglia che dura tutta la vita contro il nostro essere umano preistorico interiore. Spesso vince lui. Ma con determinazione e pratica, possiamo trovare una tregua dall’insoddisfazione cronica e spe- rimentare la gioia che è la vera libertà umana

Il brutto anatroccolo

Era così bello in campagna, era estate! Il grano era bello giallo, l’avena era verde e il fieno era stato ammucchiato nei prati; la cicogna passeggiava sulle sue slanciate zampe rosa e parlava egiziano, perché aveva imparato quella lingua da sua madre. Intorno ai campi e al prati c’erano grandi boschi, e in mezzo al boschi si trovavano laghi profondi; era proprio bello in campagna! Esposto al sole si trovava un vecchio maniero circondato da profondi canali, e tra il muro e l’acqua crescevano grosse foglie di farfaraccio, e erano così alte che i bambini più piccoli potevano stare dritti all’ombra delle più grandi. Quel luogo era selvaggio come un profondo bosco; lì si trovava un’anatra col suo nido. Doveva covare gli anatroccoli, ma ormai era quasi stanca, sia perché ci voleva tanto tempo sia perché non riceveva quasi mai visite. Le altre anatre preferivano nuotare lungo i canali piuttosto che risalire la riva e sedersi sotto una foglia di farfaraccio a chiacchierare con lei.


Finalmente una dopo l’altra, le uova scricchiolarono. «Pip, pip» si sentì, tutti i tuorli delle uova erano diventati vivi e sporgevano fuori la testolina.
«Qua, qua!» disse l’anatra, e subito tutti schiamazzarono a più non posso, guardando da ogni parte sotto le verdi foglie; e la madre lasciò che guardassero, perché il verde fa bene agli occhi.


«Com’è grande il mondo!» esclamarono i piccoli, adesso infatti avevano molto più spazio di quando stavano nell’uovo.
«Credete forse che questo sia tutto il mondo?» chiese la madre. «Si stende molto lontano, oltre il giardino, fino al prato del pastore; ma fin là non sono mai stata. Ci siete tutti, vero?» e intanto si alzò. «No, non siete tutti. L’uovo più grande è ancora qui. Quanto ci vorrà? Ormai sono quasi stufa» e si rimise a covare.
«Allora, come va?» chiese una vecchia anatra giunta a farle visita.
«Ci vuole tanto tempo per quest’unico uovo!» rispose l’anatra che covava. «Non vuole rompersi. Ma dovresti vedere gli altri! Sono i più deliziosi anatroccoli che io abbia mai visto assomigliano tanto al loro padre, quel briccone, che non viene neppure a trovarmi.»
«Fammi vedere l’uovo che non si vuole rompere!» disse la vecchia. «Può essere un uovo di tacchina! Anch’io sono stata ingannata una volta, e ho passato dei guai con i piccoli che avevano una paura incredibile dell’acqua. Non riuscii a farli uscire. Schiamazzai e beccai, ma non servì a nulla. Fammi vedere l’uovo. Sì, è un uovo di tacchina. Lascialo stare e insegna piuttosto a nuotare ai tuoi piccoli.»


«Adesso lo covo ancora un po’; l’ho covato così a lungo che posso farlo ancora un po’!»
«Fai come vuoi!» commentò la vecchia anatra andandosene.
Finalmente quel grosso uovo si ruppe. «Pip, pip» esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L’anatra lo osservò.


«È un anatroccolo esageratamente grosso!» disse. «Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo scopriremo presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!»


Il giorno dopo era una giornata bellissima; il sole splendeva sulle verdi foglie di farfaraccio. Mamma anatra arrivò con tutta la famiglia al canale. Splash! si buttò in acqua; «qua, qua!» disse, e tutti i piccoli si tuffarono uno dopo l’altro. L’acqua coprì le loro testoline, ma subito tornarono a galla e galleggiarono beatamente; le zampe si muovevano da sole e c’erano proprio tutti, anche il piccolo brutto e grigio nuotava con loro.
«No, non è un tacchino!» esclamò l’anatra «guarda come muove bene le zampe, come si tiene ben dritto! È proprio mio! In fondo è anche carino se lo si guarda bene. Qua, qua! venite con me, vi condurrò nel mondo e vi presenterò agli altri abitanti del pollaio, ma state sempre vicino a me, che nessuno vi calpesti, e fate attenzione al gatto!»
Entrarono nel pollaio. C’era un chiasso terribile, perché due famiglie si contendevano una testa d’anguilla, che alla fine andò al gatto.


«Vedete come va il mondo!» disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d’anguilla. «Adesso muovete le zampe» aggiunse «provate a salutare e a inchinarvi a quella vecchia anatra. È la più distinta di tutte, è di origine spagnola, per questo è così pesante! Guardate, ha uno straccio rosso intorno a una zampa. È una cosa proprio straordinaria, la massima onorificenza che un’anatra possa ottenere. Significa che non la si vuole abbandonare, e che è rispettata sia dagli animali che dagli uomini. Muovetevi! Non tenete i piedi in dentro! Un anatroccolo ben educato tiene le gambe ben larghe, proprio come il babbo e la mamma. Ecco! Adesso chinate il collo e dite qua!»
E così fecero, ma le altre anatre lì intorno li guardarono e esclamarono: «Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo abbastanza, e, mamma mia com’è brutto quell’anatroccolo! Lui non lo vogliamo!» e subito un’anatra gli volò vicino e lo beccò alla nuca.
«Lasciatelo stare» gridò la madre «non ha fatto niente a nessuno!»
«Sì, ma è troppo grosso e strano!» rispose l’anatra che lo aveva beccato «e quindi ne prenderà un bel po’!»
«Che bei piccini ha mamma anatra!» disse la vecchia con lo straccetto intorno alla zampa «sono tutti belli, eccetto uno, che non è venuto bene. Sarebbe bello che lo potesse rifare!»
«Non è possibile, Vostra Grazia!» rispose mamma anatra «non è bello, ma è di animo molto buono e nuota bene come tutti gli altri, anzi un po’ meglio. Credo che, crescendo, diventerà più bello e che col tempo sarà meno grosso. È rimasto troppo a lungo nell’uovo, per questo ha un corpo non del tutto normale». E intanto lo grattò col becco sulla nuca e gli lisciò le piume. «Comunque è un maschio» aggiunse «e quindi non è così importante. Credo che avrà molta forza e riuscirà a cavarsela!».
«Gli altri anatroccoli sono graziosi» disse la vecchia. «Fate come se foste a casa vostra e, se trovate una testa d’anguilla, portatemela.»
E così fecero come se fossero a casa loro.


Ma il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall’uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: «È troppo grosso!» dicevano tutti, e il tacchino, che era nato con gli speroni e quindi credeva di essere imperatore, si gonfiò come un’imbarcazione a vele spiegate e si precipitò contro di lui, gorgogliando e con la testa tutta rossa. Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto abbattuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro.
Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero anatroccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: «Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!» e la madre pensava: “Se tu fossi lontano da qui!.” Le anatre lo beccavano, le galline
10 colpivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.
Così volò oltre la siepe; gli uccellini che si trovavano tra i cespugli si alzarono in volo spaventati. “È perché io sono così brutto” pensò l’anatroccolo e chiuse gli occhi, ma continuò a correre. Arrivò così nella grande palude, abitata dalle anatre selvatiche. Lì giacque tutta la notte: era molto stanco e triste.


11 mattino dopo le anatre selvatiche si alzarono e guardarono il loro nuovo compagno. «E tu chi sei?» gli chiesero, e l’anatroccolo si voltò da ogni parte e salutò come meglio potè.
«Sei proprio brutto!» esclamarono le anatre selvatiche «ma a noi non importa nulla, purché tu non ti sposi con qualcuno della nostra famiglia!» Quel poveretto non pensava certo a sposarsi, gli bastava solamente poter stare tra i giunchi e bere un po’ di acqua della palude.
Lì rimase due giorni, poi giunsero due oche selvatiche, o meglio, due paperi selvatici, dato che erano maschi. Era passato poco tempo da quando erano usciti dall’uovo e per questo erano molto spavaldi.


«Ascolta, compagno» dissero «tu sei così brutto che ci piaci molto! Vuoi venire con noi e essere uccello di passo? In un’altra palude qui vicino si trovano delle graziose oche selvatiche, tutte signorine, che sanno dire qua! Tu potresti avere fortuna, dato che sei così brutto!»
“Pum, pum!” si sentì in quel momento, entrambe le anatre caddero morte tra i giunchi e l’acqua si arrossò per il sangue. “Pum, pum!» si sentì di nuovo, e tutte le oche selvatiche si sollevarono in schiere. Poi spararono di nuovo. C’era caccia grossa; i cacciatori giravano per la palude, sì, alcuni s’erano arrampicati sui rami degli alberi e si affacciavano sui giunchi. Il fumo grigio si spandeva come una nuvola tra gli alberi neri e rimase a lungo sull’acqua. Nel fango giunsero i cani da caccia plasch, plasch! Canne e giunchi dondolavano da ogni parte. Spaventato, il povero anatroccolo piegò la testa cercando di infilarsela sotto le ali, ma in quello stesso momento si trovò vicino un cane terribilmente grosso, con la lingua che gli pendeva fuori dalla bocca e gli occhi che brillavano orrendamente; avvicinò il muso all’anatroccolo, mostrò i denti aguzzi e plasch! se ne andò senza fargli nulla.
«Dio sia lodato!» sospirò l’anatroccolo «sono così brutto che persino il cane non osa mordermi.»


E rimase tranquillo, mentre i pallini fischiavano tra i giunchi e si sentiva sparare un colpo dopo l’altro.
Solo a giorno inoltrato tornò la quiete, ma il povero giovane ancora non osava rialzarsi; attese ancora molte ore prima di guardarsi intorno, e poi si affrettò a lasciare la palude il più presto possibile. Corse per campi e prati, ma c’era molto vento e faceva fatica a avanzare.
Verso sera raggiunse una povera e piccola casa di contadini, era così misera che lei stessa non sapeva da che parte doveva cadere, e così rimaneva in piedi. Il vento soffiava intorno all’anatroccolo, tanto che lui dovette sedere sulla coda per poter resistere, ma diventava sempre peggio. Allora notò che la porta si era scardinata da un lato e era tutta inclinata, e che lui, attraverso la fessura, poteva infilarsi nella stanza, e così fece.
Qui abitava una vecchia col suo gatto e la gallina; il gatto, che lei chiamava “figliolo,” sapeva incurvare la schiena e fare le fusa, e faceva persino scintille se lo si accarezzava contro pelo. La gallina aveva le zampe piccole e basse e per questo era chiamata “coccodè gamba corta,” faceva le uova e la donna le voleva bene come a una figlia.
Al mattino si accorsero subito dell’anatroccolo estraneo, e il gatto cominciò a fare le fusa e la gallina a chiocciare.
«Che succede?» chiese la vecchia, e si guardò intorno, ma non ci vedeva bene e così credette che l’anatroccolo fosse una grassa anatra che si era smarrita. «È proprio una bella preda!» disse «ora potrò avere uova di anatra, purché non sia un maschio! Lo metterò alla prova.»
E così l’anatroccolo restò in prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto era il padrone di casa e la gallina era la padrona, e sempre dicevano: «Noi e il mondo!» perché credevano di esserne la metà, e naturalmente la metà migliore. L’anatroccolo pensava che si potesse avere anche un’altra opinione, ma questo la gallina non lo sopportava.
«Fai le uova?» chiese la gallina.
«No.»
«Allora te ne vuoi stare zitto!»
E il gatto gli disse: «Sei capace di inarcare la schiena, di fare le fusa e di fare scintille?».
«No!»
«Bene, allora non devi avere più opinioni, quando parlano le persone ragionevoli.»
E l’anatroccolo se ne stava in un angolo, di cattivo umore. Poi cominciò a pensare all’aria fresca e al bel sole. Lo prese una strana voglia di andare nell’acqua, alla fine non potè trattenersi e lo disse alla gallina.
«Cosa ti succede?» gli chiese lei. «Non hai niente da fare, è per questo che ti vengono le fantasie. Fai le uova, o fai le fusa, vedrai che ti passa!»
«Ma è così bello galleggiare sull’acqua!» disse l’anatroccolo «così bello averla sulla testa e tuffarsi giù fino al fondo!»
«Sì, è certo un gran divertimento!» commentò la gallina «tu sei ammattito! Chiedi al gatto, che è il più intelligente che io conosca, se gli piace galleggiare sull’acqua o tuffarsi sotto! Quanto a me, neanche a parlarne! Chiedilo anche alla nostra signora, la vecchia dama! Più intelligente di lei non c’è nessuno nel mondo. Credi che lei abbia voglia di galleggiare o di avere l’acqua sopra la testa?»
«Voi non mi capite!» disse l’anatroccolo.
«Certo, se non ti capiamo noi chi dovrebbe capirti, allora? Non sei certo più intelligente del gatto o della donna, per non parlare di me! Non darti delle arie, piccolo! e ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti è stato fatto. Non sei forse stato in una stanza calda e non hai una compagnia da cui puoi imparare qualcosa? Ma tu sei strambo, e non è certo divertente vivere con te. A me puoi credere: io faccio il tuo bene se ti dico cose spiacevoli; da questo si riconoscono i veri amici. Cerca piuttosto di fare le uova o di fare le fusa o le scintille!»
«Credo che me ne andrò per il mondo» disse l’anatroccolo.
«Fai come vuoi!» gli rispose la gallina.
E così l’anatroccolo se ne andò. Galleggiava sull’acqua e vi si tuffava, ma era disprezzato da tutti gli animali per la sua bruttezza.
Venne l’autunno. Le foglie del bosco ingiallirono, il vento le afferrò e le fece danzare e su nel cielo sembrava facesse proprio freddo. Le nuvole erano cariche di grandine e di fiocchi di neve, e sulla siepe si trovava un corvo che, ah! ah! si lamentava dal freddo. Vengono i brividi solo a pensarci. Il povero anatroccolo non stava certo bene.
Una sera che il sole tramontava splendidamente, uscì dai cespugli uno stormo di bellissimi e grandi uccelli; l’anatroccolo non ne aveva mai visti di così belli. Erano di un bianco lucente, con lunghi colli flessibili: erano cigni. Mandarono un grido bizzarro, allargarono le loro magnifiche e lunghe ali e volarono via, dalle fredde regioni fino ai paesi più caldi, ai mari aperti! Si alzarono così alti che il brutto anatroccolo sentì una strana nostalgia, si rotolò nell’acqua come una ruota, sollevò il collo verso di loro e emise un grido così acuto e strano, che lui stesso ne ebbe paura. Oh, non riusciva a dimenticare quei bellissimi e fortunati uccelli e quando non li vide più, si tuffò nell’acqua fino sul fondo, e tornato a galla era come fuori di sé. Non sapeva che uccelli fossero e neppure dove si stavano dirigendo, ma ciò nonostante li amava come non aveva mai amato nessun altro. Non li invidiava affatto. Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza! Sarebbe stato contento se solo le anatre lo avessero accettato tra loro. Povero brutto animale!
E l’inverno fu freddo, molto freddo. L’anatroccolo dovette nuotare continuamente per evitare che l’acqua ghiacciasse, ma ogni notte il buco in cui nuotava si faceva sempre più stretto. Ghiacciò, poi la superficie scricchiolò. L’anatroccolo doveva muovere le zampe senza fermarsi, affinché l’acqua non si chiudesse; alla fine si indebolì, si fermò e restò intrappolato nel ghiaccio.


Al mattino presto arrivò un contadino, lo vide e col suo zoccolo ruppe il ghiaccio, poi lo portò a casa da sua moglie. Lì lo fecero rinvenire.
I bambini volevano giocare con lui, ma l’anatroccolo credette che gli volessero fare del male; e per paura cadde nel secchio del latte e lo fece traboccare nella stanza. La donna gridò e agitò le mani, lui allora volò sulla dispensa dove c’era il burro, e poi nel barile della farina, e poi fuori di nuovo! Uh, come si era ridotto! La donna gridava e lo inseguiva con le molle del camino e i bambini si urtavano tra loro cercando di afferrarlo e intanto ridevano e gridavano. Per fortuna la porta era aperta; l’anatroccolo volò fuori tra i cespugli, nella neve caduta, e lì restò, stordito.
Sarebbe troppo straziante raccontare tutte le miserie e i patimenti che dovette sopportare nel duro inverno. Si trovava nella palude tra le canne, quando il sole ricominciò a splendere caldo. Le allodole cantavano, era giunta la bella primavera!
Allora sollevò con un colpo solo le ali, che frusciarono più robuste di prima e che lo sostennero con forza, e prima ancora di accorgersene si trovò in un grande giardino, pieno di meli in fiore, dove i cespugli di lilla profumavano e piegavano i lunghi rami verdi giù fino ai canali serpeggianti. Oh! Che bel posto! e com’era fresca l’aria di primavera! Dalle fitte piante uscirono, proprio davanti a lui, tre bellissimi cigni bianchi; frullarono le piume e galleggiarono dolcemente sull’acqua. L’anatroccolo riconobbe quegli splendidi animali e fu invaso da una strana tristezza.
“Voglio volare da loro, da quegli uccelli reali; mi uccideranno con le loro beccate, perché io, così brutto, oso avvicinarmi a loro. Ma non mi importa! è meglio essere ucciso da loro che essere beccato dalle anatre, beccato dalle galline, preso a calci dalla ragazza che ha cura del pollaio, e soffrire tanto d’inverno!” E volò nell’acqua e nuotò verso quei magnifici cigni questi lo guardarono e si diressero verso di lui frullando le piume. «Uccidetemi!» esclamò il povero animale e abbassò la testa verso la superfìcie dell’acqua in attesa della morte, ma, che cosa vide in quell’acqua chiara? Vide sotto di sé la sua propria immagine: non era più il goffo uccello grigio scuro, brutto e sgraziato, era anche lui un cigno.
Che cosa importa essere nati in un pollaio di anatre, quando si e usciti da un uovo di cigno?
Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva patito, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano. E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco.
Nel giardino giunsero alcuni bambini e gettarono pane e grano nell’acqua; poi il più piccolo gridò: «Ce n’è uno nuovo!». E gli altri bambini esultarono con lui: «Sì, ne è arrivato uno nuovo!». Battevano le mani e saltavano, poi corsero a chiamare il padre e la madre, e gettarono di nuovo pane e dolci in acqua, e tutti dicevano: «Il nuovo è il più bello, così giovane e fiero!». E i vecchi cigni si inchinarono davanti a lui.
Allora si sentì timidissimo e infilò la testa dietro le ali, non sapeva neppure lui cosa avesse! Era troppo felice, ma non era affatto superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava come era stato perseguitato e insultato, e ora sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli! I lilla piegarono i rami fino all’acqua e il sole splendeva caldo e luminoso. Allora lui frullò le piume, rialzò il collo slanciato e esultò nel cuore: “Tanta felicità non l’avevo mai sognata, quando ero un brutto anatroccolo!.”